HO FATTO UN SOGNO

par Olivier Fenoy

Attore,

E’ stato tanto tempo fa. Eppure abita nel mio io più profondo, nonostante le disillusioni, per quanto dure, le sconfitte, i tormenti, il tempo dello scetticismo, gli errori, i dubbi.

Ho visto il mondo – globalizzato e omologato- come un gioco di colori così diversi che era « uno » nella luce, « uno » perché diverso, « uno » come un quadro, un grande mosaico dove ogni sassolino nella sua propria natura, verniciato o opaco, di granito o di vetro, era rispettato e aveva il suo posto. I rossi erano rossi, complementari dei viola, rivelatori dei blu. Con la loro stessa forza consentivano loro di essere dei rossi, con la loro protesta di essere dei blu notte o segno di tenerezza, oppure ancora, per comunione delicata o per distrazione, di generare il malva e il richiamo alla notte.

Avvicinandomi ancora, ho saputo che l’essere rosso non è che una generalizzazione, che ci sono molti rossi per dire il rosso, dal carminio al sangue di bue, dal vermiglio fino a quei rossi così profondi che sono quasi granati. Allora ho capito che bisogna lasciare ogni sfumatura libera di esprimersi, rivelarsi nella luce, perché l’opera sia veritiera e più che armoniosa. In effetti la bellezza è più che armonia delle forme e dei toni, rivela ciò che è. E che dire dei gialli, delle ocre, dei sabbia e dei verdi, senza dimenticare il nero di cui si dice che non è un colore?

Lasciarli tutti essere se stessi, senza giudicare, poi ascoltarli. Un giallo può essere troppo triste o sembrare il sole: ha il suo posto… e il topazio è un mistero di cui non so dire nulla: mentre le tonalità più scure e i neri, traversati dalla grazia, rivelano l’amore stesso. Così, il nero fa eco al bianco, di cui è l’ identico, non per natura, ma per accoglienza della misericordia.

Significare la bellezza -come van Gogh dipingeva un campo di girasoli inondato di sole, come Cezanne davanti a tre mele oppure dando al blu, al grigio e al viola il compito di cantare l’infinito- è significare, dare senso all’universo e spesso, attraverso la sofferenza stessa, con la solitudine come corollario, dire tutta la felicità e tutto lo splendore del mondo.

L’artista guarda e canta, non trasforma le cose, le esalta, le rende uniche, ciascuna indistruttibile perché unica, sia povera o ricca. Questo è il suo sacerdozio. Ci insegna che in ogni cultura, nulla è infimo o superfluo, che bisogna accogliere tutto del reale…e poi attraversare tutto.
Così si esprime Pierre-Emmanuel: « La cultura acquisita, bagaglio intellettuale o vernice della moda, si riduce troppo spesso a un sistema di parole d’ordine attraverso cui una « élite » pretende riconoscersi, anche se il contenuto del suo sapere le è indifferente. La vera cultura è una passione, una disposizione di tutto l’essere: un modo di credere all’uomo, di sentirsi responsabile della forma umana, insomma di amare. Uomini di fede, il contadino e l’operaio possono esserlo altrettanto del grande intellettuale. »

Sì, ho fatto un sogno
Ho visto il mondo come un grande mosaico, come la più bella delle opere d’arte, contemplando, facendo miei sia i cuoi di Cordoba, sia i campi di tulipani olandesi, sia i bronzi del Maghreb, il biancore invernale delle vaste distese del Québec.

Poi mi sono apparse le ocre e i verdi del Sahel colpiti da macchie color mattone, gli ori ortodossi, i bianchi e i neri laccati del Giappone e, sempre più intimo, più segreto, il sorriso di un bambino indio dell’altipiano boliviano, che tiene in mano un piattino di terra bruna, gioioso e povero come il suo poncho inca dai colori scintillanti.

Allora il mio cuore si è aperto ancor di più: Ho percepito gli odori e sentito le lingue, come gli inni a Dei che non conoscevo ma che erano il mio Dio…

E avendo compreso che tutto ci viene da un solo insieme, e come ogni istante sia legato all’altro, agli altri -generandosi reciprocamente e poi rivelandosi- a quel punto ho scelto di emozionarmi senza riserve per il fervore degli Ebrei che pregano al Muro del Pianto e, scuotendo la testa con loro, mi sono lamentato su me stesso. Sono stato anche catturato dalla fede dell’Islam e a piedi scalzi nel cuore della magnificenza della moschea blu di Istanbul, ho cantato la gloria e tutta la potenza dell’Creatore.

Trascendenza nell’immanenza.
Ecco ciò che ogni vera cultura esprime. Questa forza del vivo che fa sorgere in ogni uomo un desiderio infinito, un desiderio sacro. « La cultura è ciò attraverso cui l’uomo, in quanto uomo, diviene ancor più uomo, « è » ancor di più, accede ancor di più all’« essere ». E’ proprio là che si fonda la distinzione capitale tra ciò che l’uomo è e ciò che ha, tra essere e avere. La cultura si situa sempre in relazione essenziale e necessaria a quello che è l’uomo, mentre la sua relazione con ciò che ha, al suo « avere », è non solo secondaria ma interamente relativa. » Così affermava Giovanni Paolo II a l’UNESCO, facendo eco all’affermazione del Concilio: « E’ proprio della persona umana accedere veramente e pienamente all’umanità solamente attraverso la cultura. »

Così ho saputo che per evitare gli estremismi e gli integralismi, i razzismi e gli a priori, mi era chiesto di avere uno sguardo interiore, sempre nuovo, come davanti a un quadro; ho saputo che il mosaico umano, quello delle culture e del mondo, delle nazioni e delle razze con le loro povertà e loro grandezze, era la nostra vera opportunità.
Era necessario scavare e non fermarsi a metà dello sforzo, con il pretesto che « l’avvenire non fa più sognare » o che il virtuale uccide l’immaginazione. Ho detto più avanti che l’uomo, ogni uomo, è il centro di questo vasto affresco, che conserva nel cuore qualunque sia la sua miseria,spesso nascosto, a volte perfino sommerso, in attesa; in attesa di un riconoscimento senza pregiudizi, né giudizi di valore.

Lavorare al riconoscimento, cioè al risorgere delle entità culturali, è lavorare per e con l’uomo, e contribuire a portare una risposta per il domani. E’ mettere in atto una certezza. E’ ammettere una evidenza: la dignità primaria di sapersi figli.

Se le culture sono quelle famiglie umane, culle di ogni società che ci permettono di «fare memoria», che nutrono le nostre coscienze e ci danno la possibilità di situarci di fronte alle situazioni caotiche o disperanti del nostro tempo, ho sempre più il sentimento che una direzione non si improvvisa tra il fare e l’agire, sia che sia economica o sociale: essa si nutre del suo passato, del presente e del futuro. E’ memoria, coscienza e visione.

Ora, non c’è cultura vivente che non porti in sé le tre dimensioni del « presente », spalancando le porte « allo spirito umano che tende verso l’infinito » e permette di promettere, nella vita stessa, ciò che non delude.

E infatti fare riferimento alle culture particolari non significa affatto lasciarsi cullare dal fascino della nostalgia e del folklore. Non inganniamoci tuttavia, non sono le « conoscenze » e il « sapere » che possono nutrire la nostra conoscenza, la nostra presenza cosciente al nostro tempo. Fare memoria significa rendere presente e ritrovare vive « le parole della tribù ». Infatti non si può vivere senza memoria, così come non si può « essere » senza speranza. Si tratta della mia identità stessa di persona viva. Se perdo la coscienza dell’identità di un popolo, di una regione, di una nazione, rischio poi di non « vedere » più.

Quel che è vero per ogni persona, lo è ugualmente per i popoli. Ciò che dicono di loro stessi in racconti, costumi, poemi, leggende, l’identità nella quale essi si riconoscono, dà loro piena misura delle loro responsabilità per posare il proprio atto al presente, forti della loro identità specifica che apre le porte a quell’altro « presente » che è la visione. Tale è l’asse di ciò che, a prima vista, potrebbe sembrare un paradosso: al rispetto delle culture e al loro riconoscimento si origina la speranza, una visione societaria per il domani… L’uomo cosciente, l’uomo che spera e si rivela allora missionario.

Ecco perché credo che le culture particolari sono come degli zoccoli che i popoli forgiano per sé stessi lungo gli anni, insieme alle direzioni per costruire l’avvenire. E’ appoggiandosi all’immutabile che si può crearlo. In un mondo che si disloca e che si cerca, un tale ascolto delle identità e il loro riconoscimento come base di ogni strutturazione societaria ritorna ad essere primaria. Gli uomini hanno troppo ceduto a l'inclinazione che appartiene al nostro spirito ossia la tendenza a generalizzare, ad uniformare i pensieri e i comportamenti prima ancora di riconoscere ciò che è singolare, la nota originale che portano una cultura, la storia di un popolo, la sua specificità all’armonia dell’umanità.

Dopo averle così a lungo negate, il rispetto primo delle identità e delle culture può divenire il fondamento privilegiato dell’umanità del terzo millennio, che permetta di sormontare numerosi squilibri che sono oggi sorgente di conflitto. Lavorare al risveglio delle identità culturali, riconoscerle mentre sono vive, è lavorare all'opera della Pace. Altrimenti, cosa succederà a società senza riferimenti, a uomini senza radici?

Se dobbiamo avere una visione globale e addirittura la più globale possibile delle situazioni presenti, dobbiamo affermare con forza che possono esserci soltanto risposte particolari a situazioni particolari e per degli uomini particolari,riconoscendo come leggi universali soltanto le giuste preoccupazioni etiche di libertà, di giustizia della verità, corroborando il diritto alla vita e alla dignità di ogni essere umano nel grande gioco delle complementarietà.

Allora le differenze culturali saranno sorgente di mutuo arricchimento e nel momento in cui scoppieranno tante rivendicazioni di questo tipo, in modo pacifico o armato, questa attenzione ritenuta primordiale tenderà a cancellare gli orgogli particolari, le sovranità che si autoaffermano, che non portano a nulla, o meglio conducono alle avventure drammatiche che conosciamo, perché i popoli sono stati per troppo tempo soffocati.

Allora, privilegiando a livello politico i giochi di trasmissione e di federalismo autentico, si potrà affermare e verificare senza troppi idealismi che proprio come una persona nel mistero trinitario è compiuta da un’altra persona(1), una cultura è compiuta da un’altra cultura.

1-riferito in particolare a sant’Agostino